giovedì 6 settembre 2012

solo Dio può decidere, le persone no.



Bella Addormentata
id., 2012, Italia, 110 minuti
Regia: Marco Bellocchio
Sceneggiatura originale: Marco Bellocchio, Veronica Raimo, Stefano Rulli
Soggetto: Marco Bellocchio
Cast: Toni Servillo, Isabelle Huppert, Alba Rohrwacher, Maya Sansa,
Michele Riodino, Pier Giorgio Bellocchio, Gian Marco Tognazzi,
Fabrizio Falco, Roberto Herlitzka
Voto: 8/ 10
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Eh.
E come comincio?
Allora. L'anno scorso il Festival di Venezia numero 68, ancora diretto da Marco Müller e pieno di filmoni e attoroni e aspettativone, aveva deciso di assegnare il Leone d'Oro alla Carriera a un regista vivissimo e attivissimo e manco tanto vecchio - cosa decisamente insolita: Marco Bellocchio, che cominciò a far cinema quando ancora c'era il bianco e nero obbligato e che più di tutti, forse, si porta addosso gran parte della tradizione nostrana, sia sul campo tematico (basti pensare ai film sempre italianissimi come L'ora di Religione e Vincere e anche questo) sia su quello stilistico (basti pensare all'ombra di Fellini che si cela dietro Il Regista Di Matrimoni). Ero su un vaporetto prima di andare ad assistere alla premiazione (Bertolucci dava il Leone mentre in sala c'erano Nicola Piovani e Filippo Timi ed echeggiava un discorso sulla coerenza da far venire i brividi) e una ragazza commenta così: «che ridere, il premio alla carriera a Bellocchio, vorrei andare a fischiare: avanti, mica quello è un regista».
Bellocchio, a mio avviso, è uno dei migliori registi che l'Italia abbia mai avuto e forse quello che si può amare con più difficoltà. Ha la capacità di fare cinema partendo da un articolo di giornale, un episodio di cronaca, una fotografia, una leggenda. E fa del cinema vero, rigoroso ed elegante, di classe, sempre ben musicato, che purtroppo per lui (o per fortuna) si trascina poi dietro un bagaglio di polemiche di cui ne sa molto Nanni Moretti. S'era preso una specie di pausa dopo la triste capatina francese di Vincere, aveva portato in sala l'antologia Sorelle Mai, raccolta di cortometraggi girati a Bobbio in vent'anni con i suoi alunni e la sua famiglia e i suoi attori di sempre, e adesso torna non solo al cinema ma anche a Venezia, in concorso, dove forse aveva detto che non sarebbe tornato - come dice sempre Olmi.
E il film parte da ciò di cui si parlò per mesi nel 2009, e cioè i diciassette anni di coma vegetativo di Eluana Englaro, per poi spostarsi però (attenzione!) su altro, e cioè sull'approccio e la considerazione che si ha della morte in base a dove ci si trova, cosa si fa, cosa si ha subito.
Toni Servillo e Alba Rohrwacher guardano lo stesso filmato girato a Lecco mentre un gruppo di estremisti religiosi assale un'autoambulanza che trasporta il corpo della bella addormentata a Udine, nella clinica La Quiete, e assistono alle scene con approccio diverso: Servillo è deputato parlamentare di destra con qualche ripensamento, la Rohrwacher è una fanatica religiosa che mette zaino in spalla e raggiunge la morta viva per cantare il Gloria in strada con altri suoi simili. Qui conoscerà il poco utile Michele Riodino col fratello mezzo pazzo, mentre un'ex tossica tenterà furti e suicidi come fossero acqua fresca per venire sempre fermata dallo stesso medico, mentre un'ex attrice celeberrima sposata a un ex attore mediocre coltiveranno la speranza e le foglie secche di un matrimonio fallito nella casa con il figlio vivo e la figlia in coma.
Tutti questi personaggi così umani, così scavati, così psicologicamente approfonditi, così disperati, così diversi e uguali, hanno alle spalle televisioni e radio e voci di politici e presentatori che parlano del caso Englaro mentre davanti c'è la vita vera, i giorni da affrontare, le decisioni da prendere. La posizione politica e religiosa del regista (a noi comunque notissima) qua non è messa in mostra se non nella scelta degli stralci di discorsi mandati in onda qua e là.
Il risultato, comunque, è un film a cui non si potrebbe neanche dare un voto, un coinvolgimento emotivo, un'esperienza, che non è né cinema politico o religioso né pura arte visiva come era L'ora Di Religione (che parlava di un altro tipo di santi e, a mio avviso, il capolavoro inarrivato).
Maya Sansa ci regala un'ultima scena fortissima, ben scritta e ben interpretata insieme a Pier Giorgio Bellocchio, azzeccatissima, una messa a nudo dell'animo umano sui due fronti, mentre per tutto il film si susseguono interpretazioni magistrali di un'inspiegabile Isabelle Huppert, un sempre impeccabile Roberto Herlitzka, che cascano sull'approfondimento della famiglia di attori con un pessimo Brenno Placido.
Applaudito dalla stampa alla proiezione di ieri, ha poi subito i prevedibili attacchi dagli esaltati che «avete ucciso Eluana due volte!» gridavano. In realtà, loro non riflettono, morirà ad ogni spettacolo di ogni città, più volte al giorno.

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