sabato 22 settembre 2012
Venezia 69: Mira Nair.
The Reluctant Fundamentalist
id., 2012, USA, 128 minuti
Regia: Mira Nair
Sceneggiatura non originale: Ami Boghani, Moshin Hamid, William Wheeler
Basata sul romanzo omonimo di Moshin Hamid
Cast: Riz Ahmed, Kate Hudson, Kiefer Sutherland,
Liev Schreiber, Nelsan Ellis, Martin Donovan, Om Puri
Voto: 6.1/ 10
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Il nome di Mira Nair non dovrebbe dirvi assolutamente niente. Eppure l'indiana regista quasi sessantenne è stata candidata a un Golden Globe, due BAFTA, un EFA, un Nastro d'Argento, ed è stata a Venezia cinque volte, tre in concorso, vincendo nel 2001 il Leone d'Oro per il film della consacrazione, Monsoon Wedding, da noi passato in silenzio. E a Venezia c'è tornata quest'anno, fuori concorso, per presentare il suo primo film tutto americano ma con il seme dell'Oriente all'interno, anzi del Pakistan, basato su un romanzo (di Moshin Hamid) che da noi non è mai arrivato (ma qua sì).
C'è un ostaggio americano preso da alcuni integralisti di Al Quaeda, e c'è dello scompiglio: rivolte popolari, manifestazioni studentesche, la polizia irrompe dovunque e perlustra e perquisisce. Il clima teso deriva soprattutto da ciò che è successo da qualche anno: la caduta delle Torri Gemelle. America e Pakistan non vanno proprio d'accordo, e il sequestro di un americano è visto come atto di guerra. Tra fiotti di persone scalpitanti, il giornalista Bobby Lincoln (scelta bizzarra del nome) si ferma a intervistare il giovane Changez Khan, e in due mandate quest'ultimo gli racconterà la sua storia - ora in inglese e ora nella sua lingua. E la sua storia, è assai cinematograficamente banale: giunto dal Medio Oriente con furore, Riz Ahmed (faccia fin troppo azzeccata) prova a entrare in una prestigiosa compagnia di econom(ist)i e siccome risponde bene a una provocazione (del magnate Kiefer Sutherland, elegantissimo) ce la fa, e non solo: si scopre poi essere il più bravo della classe, il più dotato, il più promettente, il prescelto per le grandi commissioni, senza scatenare la gelosia e la ferocia dei compagni (tra cui l'irriconoscibile Lafayette di True Blood). E proprio mentre s'arricchisce e s'ambienta e si costruisce il futuro accende la televisione e vede il disastro: la prima torre crolla, poi la seconda. Rivelerà - e questa è la mossa vincente del film - che non ha provato assolutamente niente: non è ancora americano, e non è più pakistano. O forse, è già americano e ancora pakistano.
Interessante spunto di riflessione: ma non l'ha avuto la regista, dato che si basa su un libro.
I giorni di Changez poi diventeranno turbolenti: l'ansia dello straniero si respirerà per le strade e la sua morosa, una Kate Hudson invecchiata, mora, grassa, tutta il contrario di ciò che vediamo adesso in Glee, gli regala una mostra che lui fraintende - perché lei ovviamente fa l'artista.
L'altro aspetto interessante del film, e questo forse è merito della regista, è l'atteggiamento di dubbio che si ha verso questo ragazzo, di sospetto. Rientrato in patria, è effettivamente diventato integralista, capo di una banda di esaltati? Ha a che fare con il rapimento dell'americano?, sa dove si trova?, interverrà per la sua liberazione? È, questo ragazzo, cattivo o buono?
Ma poi anche il giornalista si scopre che ha un paio di segreti, e una triste vita, ed è subito accozzaglia.
Voto molto basso sebbene siano fioccati gli applausi a Venezia 69, dove questo film è stato presentato per primo in quanto film d'apertura. Sono sbagliati i tempi, la sceneggiatura è troppo americana nella prima parte, ci mostra immagini viste e riviste con sottofondo indiano, e i titoli di testa, infiniti quasi quanto il film, cominciano che sembra di essere davanti a una spy-story aziendale ambientata in un grattacielo comunista.
Stavamo meglio quando la Nair ci aveva dato il solo episodio del collettivo 11 Settembre 2001, che aveva lo stesso sapore, lo stesso sospetto da giallo, e non si era impelagato nella co-produzione americana.
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