venerdì 25 ottobre 2013

d'estate muoio un po'.




Monsters University
Regia: Dan Scanlon
Voto: 7.2/ 10

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La mala abitudine a cui ci ha indotto la Pixar (che ha ereditato dalla Disney) di aspettare con ansia e trepidazione la sempre estiva nuova uscita e cominciare ad elogiarne già dal trailer – dai poster – dai bozzetti le nuove frontiere della tecnologia (sono quintuplicati in questo film i peli di Sullivan rispetto al precedente), e la situazione di stallo della creatività americana, che dopo WALL•E e Up non poteva certo far meglio, ci fanno uscire dalla sala dicendo, sempre: «beh dai pensavo peggio». Perché: si tratta di un prequel, innanzitutto, e i sequel e i prequel e i remake si sa che non vengono mai col buco. Si tratta, poi, del film successivo a Brave, premio Oscar e tanta tecnica ma la più grassa delusione dell'industria digitale. Si tratta di un'uscita non contemporanea: era a giugno in America ed è arrivato a fine agosto da noi. Leggevamo quindi le recensioni anglofone che lo decretavano «easy». E easy è: Mulan trapiantata dall'Oriente a una mostropoli bislacca in cui cerca di trovare se stessa, donna e debole, nella maturazione militare a cui si costringe. Ma qui lo sforzo non si fa per salv(aguard)are un padre ancor più debole e malato; si fa coscienziosamente e consenzientemente per vocazione interna quasi religiosa: diventare un mostro tremendo e spaventosissimo con laurea dignitosa di facoltà. Al solito: l'apparenza inganna, il sé non è pienamente accettato, la costanza e la determinazione e l'impegno come in tutte le fiabe vengono sempre ripagati – e colpo di scena 1: non ripagati quanto crediamo. Il colpo di scena 2 è meno atteso: l'amico Sullivan non è tanto amico anzi è un personaggio orrendo e il buon caro Mike protagonista assoluto divide la stanza con un futuro nemico. E l'altra mala abitudine della Pixar è quella di sobbarcarsi metà film e non tutto, e lasciare l'altra metà alla Disney. E qui preferiamo la seconda, meno “easy” della prima, sicuramente più dignitosa di tutto Brave, staremo a vedere rispetto al tutto-disneyano Frozen dopo che Ralph Spaccatutto ha spaccato anche l'acerrima (con)correnza.


Che Strano Chiamarsi Federico
Regia: Ettore Scola
Voto: 5.5/ 10
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Comincia come se fosse un film: come se fosse un biopic che ricostruisce, con un attore incredibilmente somigliante non tanto di faccia quanto di vocina, l'arrivo del giovane Federico dalla Romagna alla Roma del Marc'Aurelio, giornale ad uscita sporadica di cui scopriamo i misteri della prima importantissima pagina e che contava le firme, tra gli altri, di Steno e poi dello stesso Scola. Ma dopo – con intermezzi narrativi di Vittorio Viviani, cantastorie ricalcato da Amarcord, intermezzi che sono l'unica perla del film per come vengono ignorati dai personaggi sul set (che vediamo) e non certo per quello che viene detto («il narratore non paga») – Scola non racconta più Fellini e Fellini non è più il giovane arrivato a Roma diventato quasi-ricco e quasi-famoso con le prime sceneggiature (e una nomination all'Oscar per Roma Città Aperta e il sodalizio con Rossellini di cui non viene fatto cenno) ma Scola racconta gli incontri di Scola e Fellini abbandonando la tecnica precedente, che occupa quasi metà film – troppo lunga, troppo cinematografica, troppo in contrasto con il resto; e dà il via a una serie di taglia/ incolla di scene felliniane e di repertorio per rendere in immagini le scampagnate in macchina che i due registi si concedevano, raccattando dalla strada i personaggi da baraccone che tanto amava(no). Sale quindi sul veicolo Wanda, nome in codice per chi conosce bene Cabiria, e questa rappresenta appieno il modo in cui vengono trattati i temi e le pellicole: chi già sa, coglie ma non aggiunge altro; chi non sa, non impara niente. E niente si impara né si coglie dalla «sapiente selezione di immagini dei più importanti film del Maestro», com'è stata definita la pacchiana sequenza finale, conclusione di un funerale per metà ricostruito (male) a voler sottolineare questa veste da Pinocchio che a Scola tanto piaceva. Insomma: non ci viene svelato un Fellini privato e quello che ci viene svelato non è neanche corretto (a partire dalla noncuranza delle recensioni sui giornali) né in sincrono, quando l'audio di certe interviste viene appiccicato a una nuca buia. Mi pare che gli elogi siano per il fatto che Scola sia vivo e non per il film in sé.


Sacro Gra
Regia: Gianfranco Rosi
Voto: 7.9/ 10
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Leone d'Oro italianissimo per la più italiana rassegna festivaliera che dal 1998 non si premiava (fu Gianni Amelio, con Così Ridevano, ad avere l'ultimo Miglior Film tricolore) sebbene qualche riconoscimento speciale e qualche Miglior Attore ci scappa sempre. Ma questa volta, un po' anche – e soprattutto – per il contenitore/ competizione un po' vuotino, si doveva fare. E dopo la grande bellezza, insomma, la grande bruttezza, trattata quasi con le stesse pinze. Non sono più i continui riferimenti all'ormai ingombrantemente onnipresente Fellini, ma un modo di raccontare le storie a metà tra il corale e l'onirico. Perché il documentarista Gianfranco Rosi, già passato da Venezia due volte e candidato anche a un European Film Awards, pare abbia lasciato la telecamera del documentario e in un modo che certuni trovano epifanico e certaltri un po' posticcio racconta un mosaico di storie che hanno in comune la localizzazione romanesca. Latinos che passano i pomeriggi a ballare in piazza, vicine di case popolari che ricordano le viste dalle finestre passate, coinquilini improbabili con due generazioni in mezzo e tanti cambiamenti di galateo, e poi il più assurdo protagonista, il cacciatore di insetti e larve letali per le palme che sull'autostrada si affacciano. Tra un frammento e l'altro, ora ripreso ora abbandonato a se stesso, le automobili fanno da sfondo a tutte le ore, i vetrini appannati, i cartelli stradali. Ma il raccordo non si vede mai, o meglio: non come ci aspetteremmo. Semplicemente è la colla tra questi personaggi che sembrano lontanissimi di nazionalità, epoche, persino a livello sessuale, eppure sono tutti in fila a formare un cerchio. Un film, insomma, che non proprio ci fa scattare in piedi ad applaudire; un esperimento che ha richiesto due anni di riprese e si inserisce in quella scatola di cinema ibrido di cui anche Cesare Deve Morire fa parte, che perde l'aspetto del documentario e lo riprende più per colpa degli attori che del regista, che, paradossalmente, fotografa la città di Roma nel modo opposto de La Grande Bellezza e ottiene quasi lo stesso risultato.

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