martedì 7 gennaio 2014

Sidney Poitier.



The Butler
Un Maggiordomo Alla Casa Bianca
Lee Daniels' The Butler, 2013, USA, 132 minuti
Regia: Lee Daniels
Sceneggiatura non originale: Danny Strong
Da un articolo di Wil Haygood
Cast: Forest Whitaker, Oprah Winfrey, John Cusack, Jane Fonda,
David Oyelowo, Cuba Gooding Jr., Terrence Howard, Lenny Kravitz,
Vanessa Redgrave, Robin Williams, Mariah Carey
Voto: 6.7/ 10
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Lo sterminio degli ebrei sta alla cinematografia tedesca (e Polacca) come la condizione dei neri negli anni '70 sta al cinema americano; se poco fa già lo zuccheroso The Help aveva aperto la strada a un tema sempre toccato ma mai reso così “pop”, ci ha poi pensato Tarantino a renderlo “cult” (dopo il film sui nazisti). Ma sia lui che Tate Taylor sono registi bianchi, e un bianco non riuscirà mai a raccontare una cosa che non gli appartiene al sangue. Così, Steve McQueen prende un violinista libero e lo trascina nei campi di cotone per dodici anni a subire le fruste di Michael Fassbender in un film che da noi uscirà a febbraio, mentre Lee Daniels dai campi di cotone comincia, e fa il percorso inverso: con un poco credibile Alex Pettyfer (dis)messi i vestiti da Magic Mike, cattivo stupratore di Mariah Carey e assassino senza morale, il nostro protagonista riuscirà grazie a Vanessa Redgrave (brava ma troppo misericordiosa) a entrare in quella casa e poi in quella del presidente degli Stati Uniti formandosi come negro da sala prima e fine maggiordomo poi. Riuscirà a metter su famiglia, due maschi e una moglie alcolizzata, ma lo stipendio sarà sempre inferiore a quello dei bianchi. Uno dei pargoli, poi, si ribella in adolescenza e protesta per le pari opportunità. Verrà arrestato sedici volte in due anni diventando la mezza vergogna di casa, completando il quadro perdendo l'educazione e mancando al funerale di un parente. Se la boria rivoluzionaria è ben descritta nelle poche scene azzeccate che le vengono concesse, assolutamente distaccate dalla realtà sono le scene familiari che restano. Oprah Winfrey, vero astro di questo film, che per la seconda volta non interpreta se stessa in una pellicola, è moglie innamorata a singhiozzi, che fa scenate di gelosia per le scarpe della first lady in camera, si fa trovare stesa ubriaca di gin in cucina, balla davanti alla TV in salotto; il suo personaggio pare non essere completo, ma ben si affianca (fisicamente) a un sempre bravo Forest Whitaker che fa il più bianco dei neri, devoto a un bianco e accondiscendente alle leggi, cresciuto senza pane ma con educazione e rispetto e arreso agli eventi. Crede che la rivoluzione sia l'Oscar a Sidney Poitier mentre i figli se le fanno dare di santa ragione. E le immagini di repertorio che passano al telegiornale sono anche più addolcite di quel che furono. Daniels, che l'Oscar l'ha sfiorato per Precious mancando il record del primo regista di colore a riceverlo, pare voglia proseguire nel binario della comedy attivista di The Help e sottrae tutto l'infastidibile: assolutamente niente sangue dopo lo sparo della prima sequenza, troppo poco alla morte di Kennedy (e quella coppia presidenziale è la meno riuscita della storia del cinema; l'unica che sfiora la credibilità è forse Jane Fonda come Nancy Reagan). L'obiettivo del vasto pubblico lo rimette sulla riga del patetico e commovente dopo il trucido The Paperboy con cui ci aveva fatto porre non pochi quesiti e il crudo Precious di cui prima. In quest'ultimo, erano tutti neri, ma di una periferia tremendamente dimenticata dal Signore e non solo dai bianchi (c'erano già la Carey e Lenny Kravitz); nell'altro invece c'era Macy Gray cameriera e voce fuori campo che raccontava di quell'America che le leggi se le fa da sola in cui il problema del colore c'è ma non impedisce la vita.
Raccontando poi la storia semi-vera di questo maggiordomo buono buonissimo e per trent'anni al servizio del first man, che non ha fatto altro che chiedere un aumento per sé e i suoi e niente di più, fino all'avvento di Obama e al grido di gioia delle minoranze, la ruffianata è completa, con musica strappalacrime e ultima scena per colpire al cuore. Lo spettatore attento, però, non abbocca: perché sembra che si stia raccontando una storia di cui nessuno ha colpa, né noi né i bianchi americani, troppo andata nel tempo, fintamente dimenticata, a cui s'è posto rimedio, quando tutti gli altri film del genere sanno di dover lasciare l'amaro in bocca perché la guerra non è mai finita. E la colpa forse è di: chi ha scritto la sceneggiatura, Danny Strong, un bianco politicamente colto che ha firmato il televisivo Game Change.

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