venerdì 5 dicembre 2014

l'architecture.



La Sapienza
id., 2014, Francia/ Italia, 105 minuti
Regia: Eugène Green
Sceneggiatura originale: Eugène Green
Cast: Fabrizio Rongione, Christelle Prot, Ludovico Succio,
Arianna Nastro, Hervé Compagne
Voto: 7.4/ 10
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Studente di Storia dell'Arte negli anni '70, Eugène Green si avvicinò alla figura di Francesco Borromini col desiderio di fare, un giorno, un film biografico sul quasi-più famoso architetto barocco di Roma. Passavano gli anni e Green si avvicinava al palcoscenico, chiamava la sua compagnia Théâtre de la Sapience e cominciava ad avvicinarsi al mestiere di cineasta: sarà del 2001 il primo Toutes Les Nuits, primo di una nutrita filmografia che è stata celebrata nelle Onde del Torino Film Festival del 2001. La maturazione l'ha portato a distaccarsi completamente dal cinema storico e in costume, perché in esso «l'attore recita psicologicamente, si muove pensando a come muoversi e quindi non con naturalezza», mentre il suo approccio registico è «privo di intelletto: perché l'intelletto blocca il flusso di energia dall'interno». Per cui Borromini c'è, ma è un fantasma (attenzione all'uso del termine) del passato che si fa spazio e luce tra gli architetti del presente. Eppure la pecca maggiore di questa pellicola dal titolo splendido, dove Sapienza non è soltanto la chiesa ma anche la massima arte, anche la cultura che vi è dietro la metafora costante di ogni scena, è proprio l'interpretazione dei suoi attori, dei suoi due attori giovani soprattutto, perché agli adulti non si può dir niente: Christelle Prot è perfetta, sarà perché il ruolo le è stato scritto addosso; Fabrizio Rongione invece, volto cardine del cinema naturalista dei fratelli Dardenne, è qui un tronco monoespressivo e serio, algido, che non sa dove mettere le mani, impenetrabile ma anche un po' trascinato. Sono un marito e una moglie che non si toccano, non si sfiorano, non si guardano nemmeno. Un lutto del passato li ha fatti allontanare, irrigidire, e adesso conducono le proprie vite come se fosse un favore stare insieme, in silenzio a cena, a casa, nelle notti insonni. Dopo un premio ricevuto per le architetture progettate e un discorso magnifico, lui decide di partire e rimettere mano a un vecchio progetto, un libro su Borromini. Lei lo accompagnerà, per i luoghi della nascita e poi della massima esposizione del rivale di Bernini, contro il quale rappresenta la progettazione mistica piuttosto che quella razionale, un lato che nella carriera e nell'approccio del protagonista manca totalmente. Un incontro fortuito, lo svenimento di una ragazza per strada, li porterà a formare due coppie involontarie, le donne e gli uomini, due a Roma e due a Strese, due a parlare di arte e due di psiche, scavando nei fantasmi del passato per ritrovarsi migliorati, anche se il personaggio di Ludovico Succio, effettivo diplomando dell'anno scorso verso gli studi veneti, appare come strumento per raggiungere la grazia. «Il cinema è la migliore espressione d'arte per raccontare l'Architettura», sostiene il regista; ne scaturiscono visite guidate (dalla telecamera) attraverso le facciate dei più bei siti romani e torinesi, visite chirurgiche, che analizzano ogni volta, ogni soffitto, ogni ellisse della cupola. L'accompagnamento è la voce fuori campo che ci racconta un pezzo di Storia: per questo, forse, il film è una di quelle pellicole che si fa vedere una volta sola, didattica ma non didascalica. La sceneggiatura, che risale al 2007, conta anche una ciliegina culturale nella figura che il regista interpreta alla fine, fantasma venuto da lontano a placare gli animi presenti: la sua lingua non è il francese ma l'aramaico, e teme per sé e le sue genti che questo si estingua, cosa che effettivamente sta succedendo. Il film è colto, ricco come un'opera barocca deve essere: ricca di intelletto e di pancia, dove tutto è lì per essere visto ma si vede meglio se si hanno gli strumenti per decifrarlo. L'apparente bizzarria dei dialoghi, campi e controcampi frontali e vicinissimi, e le simmetrie continue e costanti che non permettono la comparsa dello zucchero sui tavoli del caffè, contraddicono l'intento del regista: ma il modo di recitare «dei barbari, dove barbara è quella società tra il Messico e il Canada» ci ha abituati a uno stile finto, costruito. Non sembra naturale neppure questo, in effetti, ma in fondo siamo in un film barocco alla Borromini, quando un film barocco alla Bernini sarebbe sicuramente La Grande Bellezza.

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