venerdì 8 maggio 2015

by the pound.



Cake
id., 2014, USA, 102 minuti
Regia: Daniel Barnz
Sceneggiatura originale: Patrick Tobin
Cast: Jennifer Aniston, Adriana Barraza, Anna Kendrick,
Sam Worthington, Mamie Gummer, Felicity Huffman,
William H. Macy, Chris Messina, Lucy Punch, Britt Robertson
Voto: 5.9/ 10
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Ah!, gli americani: hanno tra le mani una buona storia, non originalissima, buona, un bel personaggio femminile, e pensano subito che l'attrice potrebbe vincere un sacco di premi, ma per vincere i premi il film deve incassare un sacco (vedi The Imitation Game), per incassare un sacco la gente deve preferire il cinema alla TV, e si sa quanto le serie abbiano battuto il grande schermo in trame, originalità, a qualità ormai paritaria; per cui: la storia buona, non originalissima, bisogna che galoppi, che scorra veloce veloce senza annoiare il pubblico – anche perché è un dramma materno con un personaggio femminile antipatico, per carità! – e il pubblico deve trovarci quello che s'aspetta: la redenzione alla fine, qualche patimento nel mezzo, magari un rapporto (diventerà sentimentale?) con l'uomo sbagliato, o almeno sbagliato su carta. Eppure Cake (ma le torte sono due) è una storia interessante già dal titolo: non originalissima, ma buona anche nel modo in cui si sviluppa: Claire Bennett ci viene presentata nel cerchio di sedie del gruppo di supporto per dolori cronici, moderato da Felicity Huffman non più Lynette Scavo (attenzione farà capolino poi anche suo marito William H. Macy, suo marito nella vita, evidentemente entrambi amici del regista Daniel Barnz visto che hanno parte della filmografia in comune), dove si distingue per arroganza, dipendenza dalla rabbia, mancanza di filtri nell'esprimere giudizi: vomita nel cerchio gli scheletri nell'armadio di Anna Kendrick, buttatasi da un ponte con consapevolezza, con a casa un marito e un figlio: sarà la sua ossessione: la moglie e madre perfetta all'apparenza, la figlia dell'America, che schiacciata da chissà quale demone più grande decide lontana da ogni pronostico altrui di suicidarsi. Niente di originale, certo: niente di originale nemmeno nella protagonista arrogante, arrabbiata e senza filtri. Ma Claire è, oltre a tutte queste cose, handicappata fisicamente: con ferri nelle gambe, una fisioterapia dolorosissima, l'incapacità di dormire senza drogarsi e poi ancora un marito che c'è e non c'è – sicuramente c'era, adesso ci sono una sequela di uomini senza nome dall'amplesso veloce… C'era anche un figlio… Prima del più pretenzioso progetto La Scomparsa Di Eleonor Rigby, sono stati tanti, sterminati i film che hanno parlato della perdita di un figlio e dell'elaborazione del lutto da parte dei genitori: come quello, questo vede la coppia dividersi e perdere la comunicazione, come in questo, la causa della morte fa capolino ma senza ricevere ampia accettazione alla pari di Rabbit Hole. Tutto ruota solo attorno a Claire: benestante, con una domestica che le fa anche da balia, unica a nutrire un barlume di sentimento (Affetti & Dispetti – ma sono tanti altri i film sulla padrona di casa dispotica e l'inserviente magnanima), finge di voler ricominciare a vivere ma sa perfettamente di non fare niente per farlo. L'incursione del vedovo da cui diventa dipendente, ossessionata già com'è dalla defunta moglie di lui, è ciò che di più americano la sceneggiatura potesse partorire: ma grazie a Dio non si spinge troppo oltre: o purtroppo, se consideriamo la fretta con cui i due si conoscono, il nulla con cui si perdono, la velocità fra i giorni che non passano insieme. Se invece di 102 i minuti fossero 201, senza la paura di annoiare il pubblico con i silenzi che tutti i personaggi cercano qui di evitare (a meno che non facciano pathos) sicuramente il personaggio protagonista sarebbe talmente approfondito da apparire meno banale di quello che sembra – perché in fondo banale non lo è, a differenza dalle facili metafore dell'acqua della piscina, o delle oniriche scene-visioni. Benedetta dai Razzie Awards dove, dopo quattro nominations, ha ottenuto quest'anno quella di redenzione grazie alla candidatura ai SAG – ma il premio è andato a Ben Affleck – Jennifer Aniston si riscopre attrice drammatica e ci convince nella migliore delle sue performance, snobbata dagli Oscar, dove invece la co-star Adriana Barraza fu candidata per Babel: indimenticabile in quel ruolo di colf della coppia Pitt-Blanchett, trascurabile qui nella macchietta alla Devious Maids.

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