lunedì 27 aprile 2015

per confrontare.



Samba
id., 2014, Francia, 118 minuti
Regia: Olivier Nakache & Eric Toledano
Sceneggiatura non originale: Olivier Nakache, Eric Toledano e Muriel Coulin
Basata sul romanzo Samba Pour La France di Delphine Coulin (Rizzoli)
Cast: Omar Sy, Charlotte Gainsbourg, Tahar Rahim,
Izïa Higelin, Isaka Sawadogo, Hélène Vincent, Youngar Fall,
Christiane Millet, Jacqueline Jehanneuf, Liya Kebede
Voto: 3.3/ 10
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Certamente: dopo diciannove milioni di spettatori in Francia (ma continua ad essere Giù Al Nord il fenomeno patriottico, con più di venti) e le strette di mano di Woody Allen e Steven Spielberg (ma l'indifferenza totale dell'Academy), diciamo, non c'è il rischio, ma la certezza: come la fai la sbagli. Da una parte: decisione più che lodevole di restare in patria e non volare a Hollywood a cambiare lingua e produzione del proprio cinema, anzi addirittura fare un film “a basso budget” dopo quegli incassi stratosferici. Dall'altra: la furberia di tentare di ripercorrere la stessa strada coprendo le tracce, e fare un film che comunque ricordasse il precedente, ma che apparisse ad ambizioni più alte. Ancora una volta la coppia d'oro d'oltralpe Eric Toledano & Olivier Nakache parte da un libro, Samba Pour La France – molto noto là e pubblicato da Rizzoli qua; chiede all'autrice di collaborare alla sceneggiatura ma toglie la voce fuori campo e infila quel personaggio nella storia, riproponendo l'amico di una vita Omar Sy come interprete protagonista (un César rubato a Jean Dujardin nell'anno in cui questo vinse l'Oscar) raccontando che «non farà lo stesso ruolo» ma ci credono poco pure loro: cresciuti nel «disagio della banlieue multirazziale», i due registi avevano parlato del sussidio di disoccupazione in Quasi Amici e parlano del permesso di soggiorno in Samba, nome di battesimo del protagonista, da dieci anni in Francia e con occupazioni saltuarie, file alla mattina per accaparrarsi un posto da lavavetri, da custode, da lavapiatti – eppure ha quasi il diploma da cuoco! – uno zio che lo istiga all'annullamento di sé attraverso completi eleganti, valigetta, riviste sui cavalli per apparire il meno nero possibile e un amico algerino che si finge brasiliano per rimorchiare più facilmente. A dirci quanto ruffiano sarà il tutto, quanto tripudio di buonismo, quanta commozione a tutti i costi per racimolare consensi in sala, unificare le masse contro la segregazione razziale, far annuire ai diritti civili, regalare due ore di ovvio alla gente che poi tornerà a pulirsi la mano appoggiata sul corrimano della metro – ad avvisarci di quello che ci aspetta ci pensa già il costoso pianosequenza iniziale: una festa Gatsby-style di qua, ballerine e torte e champagne per gli sposi, la servitù del ristorante che va e viene rigorosamente in abito bianco, il minestrone razziale nelle cucine e, di là in fondo, i neri a fare i lavori più umili della piramide, a ringraziare a capo chino il padrone come nei campi di cotone. Nella vita del povero protagonista s'infilerà a sorpresa Charlotte Gainsbourg, un improbabile esaurimento nervoso dopo dodici ore di lavoro al giorno da quindici anni e un'inspiegabile perdita di amici affetti famiglia che la porta ad essere sola in casa e nella vita e di notte con l'insonnia e beneficente negli uffici di accoglienza quando non accarezza cavalli per placarsi. Costruisce un personaggio che alla prima festicciola le crolla addosso, scatenandosi in danze senza scarpe – non coglie le battute né sa spezzare l'imbarazzo eppure avvisa che la “malattia” la fa esagerare in alcune cose, tipo il sesso prolifico e frequente (AH AH AH!) – eppure stranamente non è così fuori luogo come avremmo creduto, come nemmeno il padre Tahar Rahim, ormai completamente inserito nella cinematografia française. Non è fuori luogo niente, eccetto qualche battuta di sceneggiatura, non lo sono gli inseguimenti della polizia per i vicoli notturni, i nascondigli per non essere rispedito in Africa, le gag poco riuscite sullo scaldabagno che schizza, le telefonate in piena notte per andare all'Autogrill, i momenti di tensione – perché tutto risponde ai canoni del cinema facile, del film accettato dal pubblico, esattamente com'era Quasi Amici: e se il pubblico questo vuole: che gli venga dato.

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