venerdì 10 aprile 2015
si chiama girasole.
Il Padre
The Cut, 2014, Germania/ Francia/ Polonia/
Italia/ Canada/ Turchia, 138 minuti
Regia: Faith Akin
Sceneggiatura originale: Faith Akin & Mardik Martin
Cast: Tahar Rahim, Simon Abkarian, Makram Khoury,
Hindi Zahra, Kevork Malikyan, Zein Fakhoury, Dina Fakhoury,
Trine Dyrholm, ArsinéeKhanjian, Akin Gazi, Shubham Saraf
Voto: 5.8/ 10
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1915. Nazaret Manoogian, giovane fabbro nell'impero Ottomano delle minoranze, dal nome che gli calza a pennello, è amorevole marito e padre di due gemelle alle quali parla come solo nei film abbiamo visto si può parlare; tornando da scuola dopo i richiami dell'insegnante di geografia, una gru si fa vedere nel cielo: è simbolo di un lunga partenza – dice lui – che li vedrà tutti e tre viaggiatori. Fra questi due simboli territoriali profezia s'avvera: la polizia turca fa irruzione, una notte, in casa degli armeni di religione cristiana per prelevare i maschi e costringerli – dicono – ad arruolarsi nell'esercito; in realtà saranno costretti ai lavori forzati, a spaccare le pietre per farne una strada come i migliori lavori forzati cinematografici ci insegnano. Verrà data agli schiavi la possibilità di conversione religiosa all'islamismo: a chi non cede si taglia il collo. Poi toccherà alle donne e ai figli, di essere deportati e marciare nel deserto. Il genocidio del popolo armeno è stato argomento già affrontato, fra le altre forme, dal romanzo di Antonia Arslan da cui i fratelli Taviani trassero il film La Masseria Delle Allodole: cruento, dolorosissimo, spietato – tutti ingredienti che a Il Padre mancano – Il Padre, che ha motivo di chiamarsi così dopo un'ora e un quarto, dato che prima calza a pennello il titolo originale The Cut, taglio alla famiglia del protagonista e alla sua gola, che lo costringe al mutismo. Scampando miracolosamente alla tortura, infatti, Nazaret decide di tornare nel suo paese per cercare la sua famiglia, scoprendo che le figlie sono sopravvissute, date al popolo beduino e finite addirittura in America. Ne seguirà un on-the-road movie dalle citazioni artistiche (composizioni e tonalità di Delacroix con soggetti delle pitture ottocentesche della prima contaminazione esotica; una pietà invertita lunga un giorno; ma anche inserimenti espliciti di Charlie Chaplin prima in un lungometraggio, Il Monello, poi in un manifesto) anche se per tutto il tempo non possiamo fare a meno di pensare a Lawrence D'Arabia o forse meglio a David Lean in generale, Zivago incluso. La fattura da proto-kolossal con addirittura sei paesi produttori non si addice tanto all'(ex) indie Faith Akin, di cui riconosciamo soltanto il commento sonoro fatto di horrorish chitarre elettroniche in ripetizione quasi maniacale; il regista del trapianto geografico e delle origini, fedele a questo tema già da La Sposa Turca (che pure parlava di quel Paese, ma attraverso una sorta di ghetto auto-costruito in Germania, seconda patria dell'autore), si perde totalmente dietro la messa in scena pura esposizione dei fatti senza giudizio (con un punto di vista, certo), ma anche senza trasporto – distaccato lui per primo, a partire da una cartina-sommario dopo la quale vedremo le città-capitoli, a cavallo tra il didascalismo e la più piatta banalità. E non è colpa dell'inspiegabile lingua inglese se il profeta Tahar Rahim (di origine franco-algerina) non esploda sullo schermo: il suo errabondo e sofferente personaggio, come la Cheryl Strayed di Wild, con cui condivide la pecca, s'imbatte solo in persone buone, pronte a donare cibo e acqua e un letto per dormire, mentre i cattivi sono cattivi nella loro più tradizionale costruzione – anche se, facendo un parallelismo coi film in sala contemporaneamente, è The Search il parente più stretto, che tra i genocidi ha scelto quello ceceno per mano dei russi raccontando l'odissea tragica di una ragazza che cerca di orfanotrofio in orfanotrofio il fratello sparito – con The Search condivide anche il tiepido applauso di un festival: quello era a Cannes, questo a Venezia. Storia già distante da noi, per tempo e geografia, si riduce all'impossibilità di empatia perché non mostra nemmeno un pensiero, un'emozione del suo silenzioso protagonista; l'acqua che manca, il dolore per il troppo camminare, la fame, lo scetticismo religioso – tutti aspetti riportati con piglio manualistico senza devastanti scene di dolore fisico, di agonia: eppure avrebbero potuto esserci, eppure la violenza esplicita non manca. Su tutte: l'immagine della cognata che gli muore fra le braccia in più di ventiquattr'ore, e lo lascia algido, totalmente privo di espressioni, è quasi paragonabile all'asciutta conclusione che non regge l'architettura del polpettone.
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