La Plaga
id., 2013, Spagna, 85 minuti
Regia: Neus Ballús
Sceneggiatura originale: Neus Ballús & Pau Subirós
Cast: Maria Rós, Raül Molist, Rosemarie Abella,
Maribel Martí, Iurie Timbur
Voto: 8/ 10
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C'è un posto, non troppo lontano da Barcellona, in cui si muore di caldo, e in questo posto, a patire questo caldo, c'è un ragazzo che tutte le mattine va in bicicletta nei campi, perché non ha l'auto, per strade sferrate di polvere, e va nei campi ad aiutare un suo amico che coltiva prodotti biologici da vendere; il caldo, però, non aiuta il lavoro dei braccianti e nemmeno le specie vegetali: la piaga del titolo è quella della mosca bianca, insetto pestilenziale che inizia ad intaccare le foglie per poi passare al fusto e uccidere la pianta intera. «All'inizio il tema della peste agricola occupava molto più spazio all'interno della storia, per questo dà il titolo al film» dice Pau Subirós il fidanzato della regista esordiente e documentarista Neus Ballús, co-sceneggiatore e produttore; «poi è un titolo forte, che rimane impresso alla gente, per questo abbiamo deciso di tenerlo anche una volta sfoltita la trama. Anche se, temiamo, qualcuno possa pensare sia un film fantascientifico sugli alieni che vogliono conquistare la terra».
La spiegazione del titolo è ben visibile soprattutto nei primi piani a questi insetti e queste foglie che lentamente fanno il loro corso (e si ricorda un altro film del genere, il Sacro GRA). Si ha l'impressione che sia, il tutto, un documentario con la fotografia bellissima. Perché oltre all'orto coltivato, il senso di documentazione della realtà è in ognuna delle storie raccontate: dal moldavo giunto in Spagna per allenarsi alla lotta libera che intanto lavora in campagna, alla filippina a disagio nella casa di cura per anziani dove lavora e costringe la signora Maria a fare la doccia, passando per la signora Maria, colonna del film, di cui tutti erano innamorati alla fine della proiezione, vecchina gobba costretta a lasciare la casa in cui ha vissuto una vita – «e la notte penso, penso tanto» dice nel film. Lei, spiega la regista, se questo fosse un western sarebbe lo sceriffo: è dura, irascibile, ma anche incredibilmente tenera. Rappresenta il riassunto di tutti gli altri personaggi, sempre costretti a interpretare un ruolo o portare avanti una condizione che vorrebbero annullare. E a lei è dedicato il film, morta due settimane dopo la fine del montaggio. «Quando giravamo, ci diceva: sbrigatevi, ché non mi resta molto da vivere». Ma non si capisce, in realtà, fino a che punto gli attori recitino e quando no, soprattutto lei.
È un film molto attuale, troppo: i soldi non bastano per mangiare, le case si dividono con chi si può, se non si ha la bici si va a piedi, due lavori sono troppo faticosi ma necessari, soprattutto se uno dei due, per cause naturali, non frutta. Le persone si intrecciano inconsapevolmente e involontariamente, per colpa dell'unità di luogo. Si ride spesso, si sorride: per la prostituta disperata e per Maria Rós che si lamenta dei vecchi bacucchi nella hall. Si sente, non solo per lo spagnolo (catalano in realtà, ma anche filippino e moldavo) l'eco di Gonzales Iñarritu, di Amores Perros. Certo siamo lontani dalle sceneggiature serratissime di Guillermo Arriaga, ma Gesù che immagini fenomenali: un quadro macchiaiolo.
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